La persona organismo nell’organizzazione ambiente

Guardare alle organizzazioni in maniera gestaltica significa innanzitutto fare lo sforzo di uscire da un’immagine di azienda “precostituita”. Significa entrare in azienda ed analizzarne la modalità di funzionamento della stessa, adottando un approccio fenomenologico.

L’azienda è un organismo complesso, formato da persone e noi possiamo guardare all’organizzazione come ad un organismo che, nella sua complessità, si muove nell’ambiente; oppure possiamo focalizzare i singoli individui, che operano nell’azienda, come organismi di cui l’organizzazione stessa è l’ambiente.

In questo scritto focalizzeremo la seconda prospettiva.

Il coach che si trovi ad entrare nell’organizzazione, pur avendo come obiettivo l’incremento del benessere organizzativo in senso lato, legato anche alla produttività ed al reddito, si trova ad incontrare delle persone che, nel proprio adattarsi creativamente all’ambiente in cui sono inserite, hanno sviluppato una specifica modalità relazionale all’interno del posto di lavoro, modalità che rappresenta (o ha rappresentato) in qualche modo, una risposta funzionale all’ambiente stesso.

Possiamo infatti distinguere, analizzando il ruolo e le competenze del singolo impiegato, un aspetto tecnico-prestazionale ed un aspetto relazionale.

Le competenze tecniche (conoscenze, sapere) e la loro applicazione (saper fare), rappresentano una parte importante della professionalità, di cui però l’altro aspetto fondamentale è il “saper essere”, inteso come la dimensione più profonda, che si palesa in aspetti superficiali come il comportamento, e che influenza totalmente i risultati raggiunti e raggiungibili.

Il lavoro del coach gestaltico è operare, a livello di indagine, nell’esplorazione delle diverse competenze, agendo quella che possiamo definire una “diagnosi condivisa”, ovvero fata insieme dal coach e dal coachee, che ha la funzione di ampliare la consapevolezza del cliente su quelle che sono le proprie risorse e le aree di miglioramento, evidenziando,soprattutto per la componente relazionale, quelli che sono gli aspetti ambientali che sostengono quella particolare modalità .

Individuate le competenze che potremmo definire “critiche”, ovvero che andrebbero migliorate, è interessante distinguere quella che è una analisi fenomenologia della criticità da quella che è la componente processuale e senso-funzionale.

Mentre la prima analisi evidenzia il problema in sé, il modo in cui la criticità si esprime, la seconda punta all’elaborazione della criticità inserita nello specifico contesto organizzativo.

In che modo una certa competenza non si è sviluppata? Che funzione può avere per l’organizzazione e per la persona stessa non svilupparla? Cosa accadrebbe se fosse possibile acquisire meglio quella specifica competenza?

Possono sembrare domande paradossali, ma in un’ottica di campo, rilevare in che modo quella particolare difficoltà esprima (o meno) un bisogno inespresso dell’organizzazione, è un passaggio fondamentale per entrare in una dimensione di coaching gestaltico.

Il gestalt coach, quindi, accompagna il coachee ad ampliare la propria consapevolezza sui comportamenti e, contemporaneamente sui processi che sottendono a tali comportamenti. Per questo il percorso di coachingnon rappresenta un percorso di apprendimento tout court,bensì di ampliamento di consapevolezza dalla quale possono attivarsi processi di apprendimento.

Prima di progettare un piano di azione è quindi necessario comprendere se le azioni possono generare un cambiamento “possibile” e solo dopo aver accertato la sostenibilità del cambiamento, può essere stesa una strategia di intervento.

In che modo la persona, in quell’ambiente, può agire un cambiamento?

Di cosa ha bisogno per poter migliorare le proprie prestazioni o le proprie competenze relazionali?

Quali cambiamenti individuali e ambientali possono essere agiti?

La teoria del sé ci permettere di cogliere la relazione tra gli elementi, distinguendo la funzione es (legata al sentire istantaneo), la finzione io (legata all’intenzionalità e la capacità di azione) e la funzione personalità (che ha a che fare con l’immagine di sé costruita nel tempo).

E’ possibile, per esempio, che il problema nasca da una difficoltà nella funzione personalità della persona nel ruolo che ricopre: analizzando la discrepanza tra quella che è l’immagine di sé prevista dal ruolo e quella che è l’immagine di sé reale della persona, può emergere una difficoltà specifica su cui lavorare. Cosa impedisce alla persona di percepirsi in un certo modo? Quali esperienze hanno favorito il costituirsi di questa immagine di sé? Quali altre esperienze potrebbero invece sostenerla nello sviluppo di una immagine più adeguata? In che modo questo aspetto ci mostra qualcosa dell’organizzazione nella sua interezza?

Se è vero che “il tutto è più della somma delle sue parti”, è anche vero che in ogni singola parte si esprime un effetto del tutto. Estremizzando potremmo guardare alle organizzazioni come ad una sorta di frattale e chiederci come quello che stiamo vedendo nella singola parte ci dica qualcosa del tutto in cui siamo immersi. Questo ci costringe ad allontanarci da un’ottica individualistica, in cui è il coachee ad avere il problema, abbracciando invece la prospettiva per cui l’organismo è tale proprio perché inserito in quell’ambiente e non possiamo guardare all’uno o all’altro in maniere indipendente, ma dobbiamo focalizzare l’interesse proprio al confine di contatto, ovvero il luogo in cui si esprime il sé e prende forma.

Ovviamente nel momento stesso in cui entriamo nell’organizzazione diventiamo noi stessi “ambiente” ed abbiamo quindi la possibilità di influenzarne l’’espressione, sulla base di come, insieme, costruiamo l’esperienza di coaching.

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