Una storia di semplicità

Sono allenatrice sportiva e psicoterapeuta, da quattro stagioni alleno il nuoto di una squadra di triathlon e svolgo il lavoro di terapia in studio. Per molto tempo, durante la mia formazione, mi sono chiesta se e come poter far dialogare queste due differenti competenze. Sarebbe stato possibile ed efficace da un lato portare sul piano vasca ciò che imparavo nello stanza di psicoterapia, e dall’altro usare il sapere tecnico nella terapia con i pazienti atleti? All’inizio ero poco consapevole della rigidità con cui alle volte separavo i due ruoli, e di quando invece li mischiavo. Pian piano mi sono però accorta che tenerli separati non sarebbe stato sempre possibile, né desiderabile. Ho dunque cercato il modo per farli dialogare, per integrarli e per continuare ad alimentare la curiosità nella relazione con gli atleti e con i tecnici sia come psicoterapeuta che come allenatrice.

Questo processo di integrazione, iniziato qualche tempo fa, è entrato nel vivo nella stagione agonistica attuale. Ve lo racconto con la storia di un mio atleta, Thomas, e di come abbiamo ricominciato da capo.

Conosco Thomas da quando ho iniziato ad allenare la squadra di triathlon, e mi colpì subito la rigidità del suo corpo. Bacino bloccato e spalle curve in avanti, testa rivolta spesso verso il basso. La sua nuotata esprimeva una grande potenza, ma risultava poco efficace. Più che usare l’acqua per avanzare, Thomas lottava contro di essa per rimanere a galla. Quando discutevamo il suo programma di allenamento, Thomas utilizzava introietti forti e continui su come “doveva” nuotare e cosa “doveva” ottenere nelle gare. In allenamento non sentivo mai la sua voce: eseguiva senza protestare le cose che proponevo alla squadra – probabilmente il sogno di tutti i tecnici, ma non il mio.

In quel primo anno avevo 25 ragazzi da conoscere, non solo tecnicamente ma anche personalmente. Così decisi di passare la stagione a osservare la squadra per imparare da loro quel mondo così diverso dal nuoto puro. Di Thomas notavo in particolare la bracciata meccanica e frammentata, e pensai che poteva essere importante fargli sperimentare un modo di nuotare più morbido, fluido e integrato. Sapevo, grazie alla mia esperienza di terapeuta, che questo tipo di lavoro avrebbe richiesto un tempo di assimilazione, perché modificando un gesto, che sia tecnico o meno, si verificano effetti importanti nel corpo, e nel modo di sentire e di essere di una persona.

La strada sembrò quella giusta, il cronometro diceva che Thomas stava andando più veloce, e tuttavia sentivo una sensazione di cautela nel guardarlo, sia in acqua che fuori, come se tutto fosse appeso a un filo, sia tecnicamente che metodologicamente.

La relazione che stavamo costruendo mi sembrava buona, ma sentivo forte la mancanza della voce di Thomas durante gli allenamenti e non sapevo quando, come, e cosa gli succedesse. Così presi a fargli domande: come stai? come ti senti? cosa vuol dire che stai male? in questo modo va meglio o peggio?, insomma diventai curiosa di quello che provava quando io gli offrivo uno stimolo. Per lui all’inizio fu difficile trovare le parole per descrivere cosa gli succedeva in allenamento, ma insieme iniziammo a costruire un “alfabeto” che gli permettesse di comunicare con me e che mi aiutasse a capire a che punto si trovasse.

Purtroppo quel senso di precarietà si concretizzò, e alle gare nazionali del 2015 Thomas si ammalò. Col tempo scoprimmo che aveva il fuoco di Sant’Antonio, che lo destabilizzò fino a settembre. Decidemmo di ripartire, ma questa volta fu la schiena a farsi sentire, poi le adenoidi, poi la gola. In quell’anno si aggiungeva la prova della maturità, fondamentale per essere ammesso all’università inglese che Thomas tanto desiderava frequentare.

Cercammo per tutta la stagione di limitare i danni. Thomas rifiutava di entrare in contatto con il proprio corpo, che lo stava mettendo di fronte a un limite, e non si concedeva il tempo per recuperare pienamente dai diversi stop. Per questo diventò per me importante sostenerlo nell’acquisizione della consapevolezza dei limiti e della frustrazione che da essi derivava. Cercai di tradurre per Thomas quello che stava succedendo, e di sostenere il dialogo con le sue sensazioni, anche se frammentate, e con le sue relazioni, nelle quali erano presenti molte figure di riferimento a volte più impegnate a trovare una soluzione rapida piuttosto che a stare con lui nella delusione. Credo che in quel periodo tutti ci sentissimo confusi, frustrati e instabili, alla ricerca di un appiglio per sostenere Thomas e l’intera squadra.

In quelle due stagioni consecutive, Thomas si allenò poco, gareggiò ancora meno, e vide svanire diverse occasioni per ottenere qualificazioni importanti. Così arriviamo a questa stagione agonistica 2016/17.

A settembre 2016 decidiamo un cambiamento: nuotare di più e in modo diverso. Due mattine a settimana ci incontriamo da soli, Thomas ed io. Facciamo esperienze in acqua. Nulla a che fare con metodologie di allenamento innovative per farlo nuotare forte: solo esperienze. Mi viene naturale essere come sono quando lavoro in studio, curiosa e creativa. Inizio a proporgli galleggiamenti, scivolate, bolle, remate, senza programmare nulla, solo facendomi guidare dalla mia esperienza e da cosa vedo di Thomas in acqua, dall’effetto che mi fa, verificando continuamente l’impatto che hanno su di lui gli stimoli che gli propongo.

È difficile all’inizio sintonizzarci l’uno con l’altra. Per nuotare Thomas utilizza principalmente il pensiero e poco la capacità propriocettiva: non sente che cosa fa il corpo in acqua, pensa molto a ciò che ha fatto e a ciò che farà, e gli risulta difficile stare nel qui e ora. E’ questo a rendere ancora meccanico e frammentato il gesto. Lavoriamo insieme sul rendersi conto di quando è più in contatto con i pensieri che con il corpo, e per riappropriarsi della responsabilità delle sue azioni in acqua.

Le nostre mattine così sono caratterizzate da divertimento, leggerezza e un dialogo fenomenologico continuo. Thomas inizia a lottare meno con l’acqua e ad affidarsi di più sia ad essa che alla propria corporeità. Trova il ground nel galleggiamento e lo utilizza per costruire bracciate più efficaci. Continuamente ci confrontiamo su che cosa vedo io e che cosa sente lui, aperti entrambi a essere modificati dal feedback ricevuto. Con il tempo Thomas impara a portare negli allenamenti con la squadra al pomeriggio ciò che ha appreso con me al mattino. Da febbraio a marzo iniziamo a lavorare in maniera più intensa. Sempre affidandomi a ciò che vedo di Thomas, e restando pronta a modificare qualsiasi cosa io abbia programmato in precedenza, lascio che Thomas mi influenzi.

A volte ho ancora la sensazione di camminare sulle uova, ma prevalgono quelle in cui la fiducia, non saprei se nelle mie scelte, in Thomas o in entrambi, è solida. Ci sono momenti in cui i “devo” e “dovrei” di Thomas sono ancora forti, e mi irritano e destabilizzano. In altri, il suo unico riferimento diventa il tempo o la posizione, e Thomas smette di affidarsi alle proprie sensazioni e ai propri strumenti. Gli succede ancora di aver bisogno di me per trovare un senso a un allenamento andato storto o a sensazioni sgradevoli. E tuttavia è chiaro ed è importante che ora Thomas “sente” e “si sente” con più fluidità, riesce a comunicare cosa gli succede, a volte più facilmente, altre aspramente. Quando questo succede, è difficile rispettare i suoi tempi di silenzi e di rabbia, e a volte arriviamo allo scontro, altre al confronto.

Anche il suo corpo è cambiato, le spalle sono diventate più ampie, lo sguardo è rivolto in avanti, la nuotata ora è sostenuta dall’acqua e tende ad avanzare, la respirazione è fluida. Il suo modo di relazionarsi agli allenamenti è maturato, sa usare l’ironia, l’umorismo e la gentilezza verso se stesso.

E arrivano i risultati. A inizio giugno 2017, Thomas taglia il traguardo diventando campione italiano di Acquathlon, e il giorno successivo terzo classificato nel triathlon, posizioni che gli valgono la convocazione agli europei. Accanto alla commozione per questo successo  provo la soddisfazione di averlo visto nei momenti prima della gara presente a se stesso, consapevole dei pensieri e anche di un corpo, il suo, su cui fare affidamento. La conquista di maturità e lucidità da parte di questo atleta è resa evidente dal modo in cui Thomas ha condotto la gara del triathlon al meglio, pur sapendo della possibilità di essere squalificato, e mantenuto il valore della prestazione e di se stesso nonostante la successiva conferma della squalifica.

Quando ho raccontato nel gruppo di lavoro di Gestalt Coaching l’emozione provata in questa occasione, mi è stato chiesto cosa riconosco a Thomas e cosa a me stessa. A Thomas il talento di saper lavorare sodo, di aver imparato a sentire il piacere, non solo il dovere, in quello che fa, e a dare fiducia alle sue sensazioni.

A me stessa l’aver saputo fare cose semplici. Credo che sia questo il nocciolo del lavoro come tecnico, coach, psicologo dello sport e terapeuta: saper stare nella semplicità e saperla proporre, dando continuamente energia allo sfondo senza aspettarsi che ne emerga una figura precisa, come la performance. Nutrire lo sfondo significa essere in dialogo continuo con l’atleta, incuriosirsi di ciò che prova, di quello che pensa, considerandolo l’esperto di se stesso. Vuol dire anche essere continuamente in contatto con se stessi, con le proprie sensazioni e intuizioni, riconoscendo a queste valore e utilità, perché permettono di non dare le cose per scontate e di lasciare da parte in molte occasioni tabelle e teorie di allenamento, a favore del qui e ora vissuto nella relazione con l’atleta o con la squadra. Nel lavoro con Thomas, spesso le figure che emergevano dallo sfondo non avevano nulla a che fare con la ricerca della performance o con la metodologia di allenamento. Abbiamo costruito la nostra relazione con le chiacchierate informali a bordo vasca e con il dialogo in acqua durante gli allenamenti, e nutrito lo sfondo “tecnico-metodologico” usando l’abc dell’allenamento, verificando che l’uno potesse sostenere l’altro continuamente.

Thomas ed io abbiamo ancora un pezzo di strada da fare insieme fino al termine della stagione, quando andrà in Inghilterra a studiare. Ciò che mi rimarrà di lui non saranno gli allenamenti, ma il piacere di averlo accompagnato fino a quel momento, e la gratitudine per aver costruito con me esperienze con le quali ho imparato a proporre e sostenere la semplicità.

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