Respirare e lasciar andare.

Una visione motoria, organica e psicologica dello stress.

Tutti abbiamo esperienza dello stress e della respirazione, ma non piena consapevolezza di come essi siano collegati. Lo stress ci occupa, e preoccupa, in particolare quando pensiamo di doverlo o poterlo reggere per periodi sempre più protratti. Del respiro ci accorgiamo solo quando ci viene meno, e con esso le energie, e non ne abbiamo a sufficienza per fare tutto quello che dobbiamo fare. Allora ci rendiamo conto che la respirazione non è un elemento accessorio, ma indispensabile e in grado di modificare il nostro modo di stare nelle situazioni. I cambiamenti del movimento respiratorio sono infatti dei campanelli di allarme che, se conosciuti e ascoltati, ci avvisano che qualcosa sta accadendo che richiede un’attenzione e un’azione da parte nostra.

Lo stress è per definizione una richiesta di attivazione rivolta dall’ambiente all’organismo, e può essere acuto o cronico. Lo stress acuto è di durata limitata nel tempo e attiva una risposta evolutiva, come nel caso dell’uomo primitivo che davanti a un predatore (stimolo stressante) doveva attivarsi per combattere o scappare. Il suo organismo rispondeva in modo da preparare rapidamente i muscoli all’azione. Come? In primo luogo ritirando la circolazione del sangue dalle viscere e dirigendola principalmente verso braccia e gambe, per preparare al combattimento o alla fuga. Inoltre, attivando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile della liberazione di sostanze pro-infiammatorie (le citochine) che bloccano il sistema immunitario e permettono la ritenzione idrica, fondamentale per ridurre il rischio di emorragia in caso di ferite. Nella vita contemporanea, in assenza di predatori, preoccupazioni costanti o pensieri anticipatori di un pericolo possono creare le stesse reazioni fisiologiche appena descritte. Questo rilascio di sostanze avviene quando l’ippocampo, depositario delle nostre memorie situazionali, analizza e riconosce una situazione come pericolosa, senza che il processo si concluda poi con un’azione di combattimento o fuga. L’effetto è che ci sentiamo gonfi, doloranti e maggiormente predisposti ad ammalarci. E’ perciò molto importante come noi percepiamo la situazione che viviamo nel qui e ora: la minaccia di un pericolo da affrontare o da cui scappare è reale oppure no? Abbiamo davvero bisogno, come organismo, di attivarci così tanto? E come ristabilire una più adeguata percezione della situazione attuale? Vedremo che cambiando il modo di respirare, ad esempio riducendo il movimento respiratorio, si riduce la capacità percettiva e dunque si interviene sulla modalità di sentire la situazione nel qui e ora.

Per soddisfare tale surplus di richiesta energetica l’organismo deve rompere l’omeostasi, ovvero il proprio stato di equilibrio, e instaurarne una nuova, in un processo di crescita. In questo processo di crescita dell’organismo è fondamentale lo spazio del riposo, che consente l’assimilazione dell’esperienza stressante e delle risorse mobilitate. Questo principio di alternanza stress/riposo è alla base dell’allenamento sportivo: ogni ciclo di carico (insieme di stimoli stressanti elevati e continui) prevede anche un periodo di scarico, ovvero di recupero, che consente l’assimilazione del lavoro svolto. Anche tra un allenamento e l’altro è fondamentale il processo di assimilazione grazie al recupero, fornito dal riposo tra una seduta e l’altra.

Lo stress protratto nel tempo diventa cronico, e vengono a mancare i periodi di riposo durante i quali può avvenire l’assimilazione: questo impedisce la crescita dell’organismo e quindi della persona. Senza la possibilità di “nutrirsi” di quello che è stato vissuto, si avrà solo dispendio di energie.

Come l’uomo primitivo, anche noi dobbiamo spegnere le viscere, per investire nella testa e nelle mani, ovvero nel fare e non nello stare. Il rischio è che nello stress cronico, protratto nel tempo, questo meccanismo, utile se c’è la tigre, meno in ufficio, ci impedisce di sentire di cosa abbiamo bisogno per continuare a stare nella situazione che genera sofferenza. In questo modo per poter continuare a stare, dobbiamo ancora di più anestetizzarci, togliendoci la responsabilità di un’azione che possa produrre un cambiamento della situazione o che ci porti ad abbandonarla. Questo meccanismo è alla base della nostra società consumistica. Infatti presi dalla fretta, spesso fittizia e poco necessaria realmente, e dal vortice delle cose da fare, davanti a un paio di scarpe, non riusciamo a radicarci nelle nostre viscere, e dunque nei nostri bisogni, finendo per non sentire se le desideriamo oppure no, e agiamo in modo compulsivo, comprandole. Lo stress cronico dunque spegne il nostro sentire più profondo e viscerale e sostiene le azioni compulsive togliendo ground (radicamento) e consapevolezza alle azioni.

La respirazione è il primo movimento che, alla nascita, mette in relazione il nostro interno con l’esterno, permette di destrutturare e assimilare l’aria, eliminando ciò che non ci serve. La respirazione racconta il modo in cui entriamo in relazione con il nostro ambiente interno e con quello esterno, come ci sosteniamo, come prendiamo ciò di cui abbiamo bisogno e come lasciamo andare ciò di cui non abbiamo bisogno. Il movimento respiratorio è il primo atto aggressivo (aggressività intesa come andare verso e capacità di trasformare l’ambiente) da cui si sviluppano altre nostre abilità di relazione: aggressività orale (manipolare l’ambiente in modo che mi dia ciò che voglio); aggressività dentale (destrutturare l’ambiente) e aggressività sessuale (capacità di scambio all’interno di un rapporto paritario).

La respirazione può ridurre o amplificare il nostro sentire, che ha una funzione percettiva e sensoriale del movimento interno del corpo, che indica il nostro grado di vitalità e di desiderio. Nello stress se mi sento, rischio di percepire dei bisogni che in quel momento non posso soddisfare o che possono indicare un cambiamento di cui non sono ancora pronto. Inoltre mi mette in connessione con l’esperienza del vuoto e del pieno. Lo stress infatti può farci sentire all’inizio pieni e dandoci una sensazione di benessere e di onnipotenza, per poi scontrarci con la sensazione del vuoto, dell’esaurimento di energie, interessi e desideri.

La respirazione modifica anche la nostra capacità di esprimere con il movimento il nostro muoversi interno, ovvero l’espressione di un’emozione.

Infine la respirazione influenza ed è influenzata dalla relazione, sia con se stessi che con gli altri. Possiamo infatti trattenere il fiato quando incontriamo lo sguardo di qualcuno o trarre un respiro più profondo quando in quegli occhi incontriamo ciò che stavamo cercando, oppure sentire la respirazione che si blocca quando non incontriamo lo sguardo di nessuno. Nella relazione con una persona, respirare liberamente, con movimento e restando in contatto con la nostra visceralità può permetterci di scoprire cose diverse rispetto allo stare con lei, trattenendo il fiato.

Sensibilizzare il corpo nella relazione con se stesso e con l’ambiente, rendendo acuto ciò che è diventato cronico, è uno degli obiettivi della Gestalt, sia nel coaching che nella psicoterapia. In questo modo un sintomo può essere percepito come qualcosa che la persona fa a se stessa, ossia il prezzo da pagare per stare in quella situazione, che è quindi modificabile, se si esplorano altre possibili azioni. Così ci si riappropria della responsabilità, ovvero della capacità di rispondere all’ambiente in modo consapevole, rendendo possibile modificare ciò che non è buono per noi. Togliendoci da una posizione passiva (subire la situazione di stress), questo processo permette di aumentare il nostro senso di efficacia, riducendo il rischio di scivolare in sintomi legati all’ansia. Un altro obiettivo nel lavoro Gestalt è trasformare la consapevolezza dei processi interni ed esterni in azioni consapevoli, ovvero diretti verso uno scopo, esplorando attivamente nuove strade, trasformando la tensione in azione.

 

Letizia Navarino

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