L’approccio gestaltico ai conflitti nelle organizzazioni

Un giorno, ci fu chiesto un intervento di coaching per un gruppo di lavoro all’interno di una casa di riposo. C’erano molti conflitti tra i membri del gruppo, e ciò aveva un effetto negativo sia sull’atmosfera del gruppo che nella qualità della cura. I residenti e i loro parenti se ne lamentavano molto.

Il team manager aveva già parlato con i membri del gruppo coinvolti, e ogni volta sembrava che il conflitto specifico fosse risolto, ma dopo una o due settimane si presentava un altro conflitto. In un qualche modo, lui aveva l’idea che qualcos’altro stesse succedendo, ma non sapeva come metterci le mani. Perciò ci contattò, per capire che cosa stava succedendo, e come lui (o noi) potessimo gestire la situazione.

Durante l’incontro iniziale con questo manager ed il suo assistente, osservammo più volte come entrambi regolarmente si interrompessero, per correggere un’affermazione o per dare un punto di vista opposto. La cosa ci faceva sentire piuttosto a disagio e confusi.

Dopo un po’, chiedemmo di rimanere qualche momento in silenzio, e di fare attenzione a quello che stava succedendo. Quando condividemmo con loro ciò di cui eravamo consapevoli, notammo che fu per loro una sorpresa il fatto che si stessero interrompendo, correggendo reciprocamente, e creando confusione. Dunque, gli chiedemmo se andava bene entrare un po’ più dentro questo fenomeno, e vedere in che modo si collegasse al loro modo quotidiano di interagire e comunicare. Durante la conversazione scoprimmo insieme che essi avevano una certa quantità di piccoli conflitti, e che avevano anche differenti punti di vista su come gestire il gruppo di lavoro e come organizzare la cura dei residenti. Ci accordammo perciò che, prima di iniziare qualsiasi percorso di coaching con il gruppo di lavoro, avremmo lavorato un paio di volte con loro, in modo da esplorare i conflitti e le differenze, e vedere come si collegassero ai conflitti all’interno del gruppo di lavoro, ed eventualmente anche ad altri conflitti o differenze nel campo più vasto dell’organizzazione.

Ci incontrammo tre volte, ed ogni volta che chiedevamo di preparare l’incontro facendo un po’ di lavoro a casa, come scrivere sulla gestione e sulla cura, il loro punto di vista sull’altro (qualità, apprezzamenti e critiche), la loro idea degli obiettivi da raggiungere e, non secondario, la loro visione sull’organizzazione come intero.

Durante gli incontri successivi, divenne chiaro che entrambi avevano reciproca empatia, il che offriva una buona e solida base per un’ulteriore cooperazione. Divenne anche evidente che le loro differenze di visione in merito alla cura non erano così grandi come sembravano all’inizio, ma che le differenze erano più presenti nel modo in cui intendevano organizzare e gestire la cura. Quando esplorammo queste differenze, ne uscì che il capo del dipartimento, che aveva lavorato in questa organizzazione per un periodo più lungo del suo assistente, aveva più difficoltà nel prescindere dalla struttura e dalle procedure formali. L’assistente si prendeva invece semplicemente la libertà di andare oltre tali regole, o di interferire con la struttura formale, quando sentiva che ciò era meglio per i residenti o per lo staff.

Segretamente, il capo del dipartimento ammirava il suo assistente per tale comportamento, perché era convinto che stesse di fatto operando in accordo con la missione e gli obiettivi dell’organizzazione, ma la struttura formale non gli consentiva di legittimare o di sostenerlo apertamente in questo. E temendo un conflitto con il suo manager, iniziava a criticare il suo assistente.

È chiaro che questa situazione aveva portato a mancanza di chiarezza, e perfino ad una scissione nel gruppo di lavoro, riguardo alla visione della cura e alle procedure da seguire. Dunque avevamo effettivamente a che fare con un gruppo all’interno di un’organizzazione, in cui una persona aveva deciso di cambiare la mission, gli obiettivi e la politica secondo una modalità di cura più orientata alla persona, ma la struttura dell’organizzazione non era stata cambiata in coerenza a questa nuova politica. Perciò la “vecchia struttura” non era più in sintonia con la nuova politica.

Sia il manager che l’assistente pensavano che questo “problema” fosse presente a tutti i livelli dell’organizzazione, persino a livello del consiglio di amministrazione. Era un segreto pubblicamente noto che, negli incontri del consiglio, ci fossero grandi discussioni riguardo alla struttura, e che alcuni suoi membri avevano avuto anche conflitti fra loro.

Dunque, la nostra conclusione fu che i problemi ed i conflitti in questo gruppo di lavoro erano espressione o sintomo di un conflitto più profondo, insito nell’organizzazione nel suo insieme. Perciò, intervenire solamente a livello del gruppo non avrebbe probabilmente portato ad alcuna risoluzione, ma sarebbe semplicemente stato un “insistere con la stessa cosa”.

Quando ciò divenne chiaro, ci accordammo sull’avere un incontro con il direttore generale, per condividere con lui il nostro punto di vista.

Il manager fu molto disponibile e aperto nel’ascoltarci, di fatto riconobbe il problema, e questo risultato lo incoraggiò a riportare la questione fin dentro al consiglio di amministrazione. Ci chiese perfino se volevamo condurre un intervento di coaching all’interno del consiglio, in modo da trattare questo problema in modo adeguato.

Partecipammo agli incontri del consiglio di amministrazione per due volte, e riuscimmo a sostenerli nell’aprire una discussione aperta sulla struttura, e su come adattarla maggiormente alla cultura che si voleva raggiungere. Ciò che fu molto importante durante tali incontri fu la scelta di tornare agli scopi originari e alla missione dell’organizzazione, e vedere se c’era ancora un  impegno generale verso di essa.

Era di fatto il caso, ed era chiaro, che ognuno volesse migliorare la situazione, ma che non sapessero come fare. Suggerimmo perciò che visitassero altre organizzazioni, che avevano gestito questa sfida in modo adeguato, e vedessero come questo potesse ispirarli. Non a copiare le loro soluzioni, ma per esserne ispirati.

Suggerimmo anche un collega consulente, che era specializzato nello sviluppo di strutture, che contribuivano a una cultura orientata alla persona all’interno di una organizzazione di cura.

Più tardi venimmo a sapere che, con il sostegno di questo altro consulente, l’organizzazione aveva cambiato la struttura formale in una struttura molto più adatta, che dava più spazio e libertà ai dipartimenti di avere il loro proprio budget e competenza, e a prendere le loro proprie decisioni. Ciò aumentò in modo evidente le possibilità di lavorare in un modo più orientato alla persona.

Un altro risultato, che abbiamo riscontrato, fu il fatto che nel momento in cui il manager di questo dipartimento ed il suo assistente divennero consapevoli di ciò che stava succedendo fra di loro, il loro atteggiamento e comportamento reciproco e verso il gruppo di lavoro cambiò, e con ciò la situazione per il gruppo di lavoro divenne molto più chiara.

Dopo alcune settimane il gruppo di lavoro, come anche i residenti ed i loro parenti, riportavano molta più soddisfazione e fornivano un feedback positivo. Inoltre il tasso di assenteismo fra i membri del gruppo di lavoro era calato significativamente. Il cambiamento nella struttura formale consolidò questo sviluppo positivo a livello di dipartimento.

La nostra conclusione fu che era stata una buona cosa non risolvere il conflitto fra gli operatori o fra il manager ed il suo assistente, ma prenderci il tempo di esplorare il conflitto nel suo contesto più vasto, per vedere come fosse connesso al campo allargato dell’organizzazione, e con ciò ottenere più insight nei fenomeni sottostanti e creare una soluzione, che nel lungo termine fosse un risultato assai migliore.

 

Frans Meulmeester

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